TESI DI LAUREA

 

 

 

 

 

                                                                        

INTERVISTA A RINO BIZZARRO

Questa intervista è estratta dalla tesi di laurea in “Educazione alla lettura” discussa dalla Dottoressa  Stefania Grandolfo, relatore  il Prof. Daniele Giancane,  presso la Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Facoltà di Scienze della Formazione, il 25 Novembre 2011: “RINO BIZZARRO, UN INTELLETTUALE DEL SUD: LE OPERE PER L'INFANZIA”.

 

Quando ha capito che voleva fare l’attore di teatro?

Risposta - Sui banchi di scuola; andavo a teatro a vedere gli spettacoli che arrivavano qui a Bari, al teatro Piccinni, e desideravo stare lì dove erano gli attori, sul palcoscenico; era un desiderio così forte che un po’ alla volta capii e mi convinsi che quella doveva essere la mia strada, quello doveva essere il mio mestiere, perché non riuscivo a concepirne un altro diverso.

Cosa si ricorda della sua prima volta su di un palcoscenico?

R. - Ricordo un grande entusiasmo, una tensione fortissima, una emozione altrettanto grande, e il desiderio di arrivare a quel traguardo il più in fretta possibile: non vedevo l’ora! E si trattava solo di una piccola recita e di una  rappresentazione organizzata nell’ambiente scolastico, al principio di tutto.

E poi ricordo ancora una confusione totale, un caos assoluto, che solo all’aprirsi del sipario per incanto scomparve per ricomporsi in un ordine sorprendente: lo spettacolo.

Quando è maturata l’idea di fare il regista teatrale?

R - Dopo anni di lavoro in palcoscenico come attore, al servizio di idee altrui, un po’ per volta è maturato in me  il desiderio, anzi il bisogno di esprimere idee mie in palcoscenico, oltre che prestare il corpo e la voce a personaggi inventati da altri. E’ stato l’impellente bisogno di esprimere un mondo interiore che aveva urgenza di emergere e di trovare  forma e spazio; io ho assecondato questa urgenza allargando il mio lavoro anche alla regia ed alla scrittura teatrale, alla drammaturgia.

Quando considera il suo lavoro un “successo”?

 R- Il “successo” dalle nostre parti, per chi opera professionalmente in teatro,  al sud ed in Puglia, a Bari in particolare, è una parola che userei poco; qui da noi il successo non esiste veramente, a meno che ci si voglia accontentare e si voglia chiamare successo i pochi  righi sul giornale, o il rapido servizio alla TV locale e altre simili piccolezze; il successo vero qui non esiste, bisogna purtroppo ancora emigrare al nord o all’estero, se si vuole il grande successo nazionale e internazionale, che solo i grandi mezzi di comunicazione di massa presenti nelle grandi capitali nazionali ed europee possono eventualmente offrire. Ma chi sceglie di rimanere qui al sud, deve aver messo nel conto fin dall’inizio queste considerazioni, altrimenti sarebbe un illuso o un pazzo. Qui bisogna lavorare soprattutto per la promozione culturale e civile di questa terra, che ne ha ancora tanto bisogno; il “successo” è la chimera da cui bisogna essere capaci di guardarsi e che bisogna avere la forza e la saggezza  di non inseguire a tutti i costi.

Cosa lo ha spinto a scrivere racconti e poesie per ragazzi?

R - Anche qui la passione prima di tutto; la passione per la scrittura e per la comunicazione scritta insieme a quella teatrale; poi la spinta di qualche amico che mi ha suggerito di cimentarmi anche su quel versante; spesso l’ho fatto, con grande soddisfazione personale ed anche con qualche riscontro da parte dei ragazzi a cui erano destinati i miei scritti.

 Si è divertito o è stata un’impresa ardua?

R - Soprattutto mi sono divertito, nel senso nobile del termine; se non mi diverto io prima, non posso interessare né divertire i ragazzi; è quanto succede anche in teatro: se non ci credo io per primo in uno spettacolo, se non mi diverto io per primo, non riuscirò mai ad essere convincente per il pubblico né mai a divertirlo.

Pensa che questi ne possano ricavare un insegnamento? Quale?

R - Certamente; è il migliore insegnamento quello che arriva passando dal divertimento e dall’interesse per una determinata storia, racconto, poesia, favola, teatro o altra espressione artistica. L’insegnamento sarà poi quello che volta per volta verrà espresso dall’opera che leggeranno, o a cui assisteranno, dai suoi contenuti,  aggiungendo che è già un insegnamento in sé l’apprendimento effettuato attraverso il veicolo artistico  proposto da uno scrittore, da un poeta, da un attore, ecc.

Quale è il messaggio che vuol dare con il suo teatro?

R - Il mio teatro ha sempre voluto raccontare, in maniera creativa, gli storici rapporti fra la cultura teatrale napoletana, egemone, e la cultura teatrale pugliese, subalterna, alla ricerca di una sua espressione autonoma, infine senza più sudditanze culturali (il discorso sulla Maschera teatrale  pugliese di Don Pancrazio Cucuzziello, per esempio, esplicita molto bene questo filone di ricerca).

E poi un altro messaggio forte, cui in parte ho già accennato, è quello che invita a non emigrare più da questa terra per fare questo mestiere, oggi si può cominciare a fare questo discorso, ma a  rimanere qui al sud per arricchire con il proprio lavoro  questa terra che cerca il giusto riscatto culturale, quello che solo gli intellettuali più illuminati possono contribuire ad offrirle.

Quali qualità deve avere un attore?

R - Un po’ di sana “pazzia” è necessaria, perché altrimenti non si sceglierebbe di fare questo mestiere, così difficile e anche duro e di farlo qui al sud. Ma una pazzia creativa e controcorrente, quindi alla fine portatrice di salubri venti di novità; e poi ovviamente ci vuole un po’ di talento naturale, insomma bisogna saper recitare, anche se poi questo talento si può e si deve affinare con lo studio e l’applicazione e il sacrificio.

Quali strategie utilizza per costruire i personaggi che interpreta?

R - Quando devo interpretare un personaggio completamente nuovo, per la prima volta, quando mi imbatto in un personaggio totalmente fuori magari dalle mie corde personali di uomo, incomincio a lavorarlo nella mente, in ogni attimo della giornata; incomincia così un percorso di avvicinamento che dura poi per tutto il tempo delle prove. Dopo un mesetto di questo “esercizio”, in genere il personaggio è entrato nel mio sangue, fa parte di me, è diventato in parte me stesso, e posso come attore ritirarlo fuori, con le opportune tecniche attoriali, ed offrirlo alla fruizione del pubblico con buone possibilità di essere credibile ed accettabilmente vero.

Cosa manca a Bari, città ricca di storia, per diventare “luogo di cultura”?

R - Quello che ho detto prima: che sia invertita totalmente la tendenza ad emigrare per cercare fortuna, successo e denaro fuori, specie per quel che riguarda il mondo dell’arte in generale. Se tutti facessero così, questa terra in breve tempo diventerebbe una fucina di talenti e di attività culturali ed artistiche che non avrebbe nulla da invidiare ad altre terre ben altrimenti più attrezzate e storicamente più agguerrite da questo punto di vista, della nostra Puglia. Poi c’è il discorso sulle istituzioni, spesso disattente alla promozione culturale vera del territorio; ma questo è tutto un altro discorso.

“Don Pancrazio Cucuziello” cosa è significato per la sua carriera?

R - Come dicevo poco fa la maschera teatrale pugliese di Don Pancrazio Cucuzziello in parte rappresenta e bene  simboleggia il mio sforzo e il mio lavoro di promozione culturale di questa terra; Don Pancrazio è l’unica maschera teatrale pugliese; alla metà dell’Ottocento a Napoli ebbe un successo enorme e clamoroso  accanto al Pulcinella di Antonio Petito, sulle tavole del celeberrimo Teatro Sancarlino; ebbene di questa maschera qui in Puglia pochissimi avevano notizie, e spesso approssimative, distorte e non veritiere. La mia ricerca, e quella di alcuni altri compagni di avventura, non solo qui all’inizio non ha trovato sostegno, ma qualche volta abbiamo persino trovato incomprensioni, ostacoli, atteggiamenti negativi ed ostili, volti a fermare il nostro lavoro o a negarlo; sembra assurdo, ma è proprio così.

La sua vita, si è concentrata in particolare sulla parola, la parola intesa come suono, vita, sentimento e pensiero.

Le sue poesie descrivono la bellezza della vita: il corpo sinuoso di una donna, l’immagine delicata della natura, scene di vita quotidiana di un quartiere difficile della sua città.

Crede che nel futuro si possa gustare ancora la dolcezza avvolgente della parola?

R - La parola ci differenzia dagli animali e ci offre un potentissimo mezzo per comunicare e capire e far capire le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le nostre

idee, che altrimenti faremmo fatica ad esprimere, o non potremmo proprio esprimere, o dovremmo esprimere con violenza, come a volte succede fra gli animali. Personalmente penso che la parola rimarrà sempre il veicolo principale della comunicazione artistica in teatro, per la sua duttilità a diventare facilmente poesia, sentimento, bellezza ecc, naturalmente nelle mani di un artefice capace di operare questa specie di miracolo. Per quel che mi riguarda non potrò mai fare a meno della parola nel mio teatro, e magari anche della parola poetica, perché sono convinto che il teatro di parola resterà sempre la forma teatrale più convincente ed efficace per la espressione dei sentimenti umani.

Una delle commedie che mi è rimasta nel cuore è “Nella penombra”.

La vita in effetti è strana, imprevedibile, ingiusta, brutale, confonde e delude.

È mai stato deluso durante la sua carriera? Come è riuscito ad attutire il colpo?

R - “Nella penombra” è una delle commedie più poetiche che io abbia mai scritto (parlo per quello che è il mio gusto e la mia idea) ed anche uno dei momenti in cui è stato più possibile per me coniugare teatro e poesia. Le delusioni in una vita di teatro sono all’ordine del giorno, tanto che a volte si rischia di diventare persino un po’ cinici; ma proprio a questo bisogna stare attenti: le delusioni o gli altri aspetti negativi della vita che non mancano mai a nessuno, non devono in nessun caso scalfire la sensibilità dell’uomo di teatro, l’amore per il bello e il grande, l’osservazione in chiave sempre positiva del mondo e delle cose, oltre che degli uomini; questo atteggiamento mentale penso che possa molto aiutare (almeno per me è stato così) a superare i frequenti momenti difficili della vita di un teatrante meridionale che operi professionalmente  al sud.

Lasciò Milano per tornare nella sua terra, una scelta coraggiosa. Cosa lo ha spinto a tornare?

R - Proprio tutto quello che abbiamo descritto fin qui: la convinzione che non si vive solo per fare soldi o per avere successo personale; ci sono altre cose, molto più difficili da perseguire e molto più importanti, anche se apparentemente  meno gratificanti. Poi ci sono i motivi anche occasionali, le combinazioni di quel momento, le ragioni dell’attimo presente; uno dei motivi occasionali che da Milano mi riportò qui a Bari, fu che proprio  a Bari, mentre ero al nord per lavoro, stava per essere varato il teatro stabile regionale, e il regista che stava lavorando al primo spettacolo da allestire, Michele Mirabella che stava mettendo in scena “I carabinieri” di Beniamino Joppolo, mi chiamò a far parte del cast: lasciai tutto e tornai qui in due giorni.

Io credo che il teatro sia una specie di mondo incantato in cui rifugiare il proprio Io.

Lei cosa ne pensa?

R - Non voglio rompere  il suo incantesimo; tenga pure questo bel concetto del teatro, che visto dal di fuori può anche talvolta apparire vero; anche se poi vivendoci dentro …  è anche un’altra cosa: una sorta di “paradiso abitato da diavoli … ”. Il teatro è un mondo dove gli incanti per chi ci vive e lavora sono pochi; non tutto brilla come i lustrini e le luci dei riflettori; noi costruiamo incanti per gli spettatori, questo si; e saremo tanto più bravi quanto più veritieri e convincenti saranno quegli incanti per il pubblico. Quando poi si spengono tutte le luci e il pubblico se ne va, noi restiamo spesso al buio, nella notte fredda … Ma bando alla retorica e alla tristezza; il teatro per me è il più bel mestiere del mondo.

Progetti per il futuro?

R - Tanti, non sono le idee a mancare per fortuna; ma le idee poi bisogna anche saperle mettere in pratica, e qui ovviamente incominciano tutte le difficoltà. Ma ormai siamo abituati e vaccinati a tutte le insidie e continueremo il nostro lavoro finché staremo in piedi. Per rispondere alla sua domanda in modo più preciso, penso a Tommaso Fiore per un prossimo possibile spettacolo; ma tutto il resto lo taciamo … per scaramanzia; i teatranti sono molto superstiziosi, come tutti quelli che convivono con l’alea, che è l’unica vera realtà concreta, paradossalmente, che contraddistingue il lavoro in teatro.

                                                                                                                                        Stefania Grandolfo